Mese: aprile 2018
«Leggendo le pagine trucide e amorose di Picca – uno dei suoi libri più riusciti, visceralmente sofferto – si riscopre il fascino (mostruoso) di una città che sempre cambia e sempre si ripete, ma prediligendo quella di chi non vuole cambiarla, “perché non era capitale di niente” ma “solo la femmina del mondo infame”».
Goffredo Fofi, «Internazionale»
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«Di una Roma così raramente si legge, certo c’è stato Giuseppe Gioacchino Belli con la sua plebe – però altri tempi; oppure, sul piano cronistico, Massimo Lugli con i suoi attenti resoconti. Il caso Aurelio Picca è diverso perché la Roma di cui narra in questo Arsenale di Roma distrutta è sì quella delle plebe e della malavita, filtrata però dalla fantasia e dalla lingua aspra d’uno scrittore eccentrico nel panorama italiano». Così Corrado Augias inizia la sua appassionata recensione del nuovo libro di Aurelio Picca, su «il venerdì – la Repubblica».
In Arsenale di Roma distrutta è la capitale la protagonista di questo viaggio autobiografico e topografico che offre al lettore, con un linguaggio e uno stile a volte nudo e crudo, personaggi e luoghi di una città che non finisce mai di decadere e risorgere.
Magnifica e infame la Roma di Picca, com’è sempre stata. Poiché parlo di un libro aggiungo: pagine che volano sotto gli occhi Corrado Augias, «il venerdì – la Repubblica»
Come un menestrello, l'autore celebra vie e piazza in cui le voci si confondono: c'è Roma all'alba, quella del mercato di via Montebello, c'è il caffè Tazza d'Oro, il teatro Volturno… «I brevi capitoli di Picca corrono sghembi e imprevedibili verso un assoluto che è al di là di ogni colore locale, di ogni scrupolo di verosimiglianza, di ogni rassicurante sociologia. La Roma di Picca, insomma, possiede in tutto e per tutto la consistenza dell’immaginario» (Emanuele Trevi, «Corriere della Sera»).
Nel libro emergono dal passato, vivi e potenti, personaggi come Chinaglia o Benvenuti, Renatino De Pedis e la Banda della Magliana; l'autore mescola artisti e criminali, poeti e attori, prostitute e garzoni, tutti vivi nella luce della città eterna di cui l’autore ci «ha lasciato un’immagine di rara potenza emotiva, metafisica e carnale al tempo stesso, che difficilmente i lettori potranno dimenticare» (Emanuele Trevi, «Corriere della Sera»).
Il linguaggio di Picca nasce dall’incontro con «Bataille e Blanchot, Rimbaud e Verlaine; ma anche Domenico Rea e Luciano Bianciardi: gente che ha passato il tempo a demolire la propria biografia. E ho capito che quello era il mio stile, l’unica via possibile tra letteratura e vita» (Aurelio Picca intervistato da Antonio Gnoli, «Robinson – la Repubblica»).
«Questa storia che si estende dagli anni Venti ai Cinquanta narra l’indecisione tra l’andare e il restare, con il carico di perdite e di eventuali guadagni che comportano l’una e l’altra scelta. Ma soprattutto racconta il dolore dello strappo quando questo è inevitabile e non si sa con chi prendersela. Per questo Balzano, puntando su un fu-paese, ha scritto una storia di sperdimento e di provvisorietà ben radicata nell’oggi. La letteratura resta qui, come il campanile di Curon».
Paolo Di Stefano, «La Lettura – Corriere della Sera»
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Un campanile che emerge appuntito dall’acqua, tanto affascinante e surreale da sembrare un fotomontaggio. Invece è ciò che rimane di Curon, paesino del Sudtirolo al confine fra Austria e Svizzera, sommerso nel 1950 per la costruzione di una diga.
Marco Balzano, scrittore e insegnante milanese, Premio Campiello nel 2015, è partito proprio da questa immagine per il suo nuovo romanzo, Resto qui: «Non credo nei colpi di fulmine. Credo che le cose vadano metabolizzate, ma qua è successa una cosa diversa. Questo campanile che spunta dallo specchio del lago, mi è venuto incontro, mi è sembrato davvero una storia» (Marco Balzano, ospite a «Fahrenheit»).
La storia è affidata alla voce di Trina, una donna caparbia, legata alla sua terra, al suo paese. Odia piangere, è abituata a lottare e lo fa tutta la vita. Quando i fascisti arrivano in quella valle, dove si sente solo l'eco della Storia, la vogliono italianizzare, occupano scuole e municipi, vietano la lingua tedesca, cambiano i nomi alle vie. Vogliono sradicare radici di secoli.
Sarà forse per questo tema resistenziale o per lo stile asciutto, senza un aggettivo in eccesso, che il libro ricorda le migliori prove della narrativa neorealistica italiana Andrea Kerbaker, «Tuttolibri – La Stampa»
Trina vuole fare la maestra, vuole insegnare ai bambini a leggere e scrivere in tedesco, è disposta ad «andare nelle catacombe», le scuole clandestine, rischiando l'arresto, la deportazione. Nonostante tutto resta lì, con suo marito Erich e i suoi due figli perché i fascisti non devono vincere, perché non si abbandonano le montagne, i masi e le strade, anche se cambiano nome.
Resta lì nel '31 quando Hitler dà ai sudtirolesi la possibilità di entrare nel Reich e il paese si divide tra chi vuole andare via e i restanti. Resta lì anche se l'adorata figlia scompare al seguito degli zii verso la Germania, procurandole una ferita non rimarginabile: è a lei che Trina scrive e racconta la storia del suo paese che non c'è più. Resta lì quando Erich sceglie di non tornare in guerra: «Le pagine del disertore in fuga, che prende per mano la moglie e con lei sale la montagna per cercare di raggiungere il confine svizzero, sono le più forti del romanzo» (Paolo Di Stefano, «La Lettura – Corriere della Sera»).
Balzano ha dato vita ad «un romanzo che ha il pregio di crescere di capitolo in capitolo. Come succede con i narratori di talento. Benché ambientata in altra epoca, la storia parla dei grandi tempi di oggi. Le frontiere, il migrare, i dissidi etnici, i soprusi del potere sulla gente comune, le pulsioni autoritarie. Il tutto in un lembo troppo spesso dimenticato del nostro estremo nord, stavolta specchio non solo dell’Italia ma dell’Europa delle scelte difficili» (Gigi Riva, «L’Espresso»).
Il nuovo libro di Diego De Silva, Superficie, è un viaggio spiazzante, comico e irriverente nella banale quotidianità del nostro vivere. L'autore sorprende il lettore intessendo una baraonda di frasi fatte per divertire e provocare, mette in scena con ironia il teatrino della modernità nel quale le chiacchiere vengono spesso scambiate per riflessioni originali e acute. Svela il lato tragicamente comico del nostro parlare, nei bar, in famiglia, tra amici e colleghi.
Per Francesco Durante, che ha recensito il libro per «Il Mattino», «la sfida di un libro interamente costruito con frasi fatte prese dallo stupidario universale è stata vinta perché il risultato è esilarante, ma anche perché il libro non è solo un esercizio di stile alla maniera di Queneau, e dà l'idea di essere sempre sul punto di sfondare il limite che si è imposto e attingere una forma più precisamente narrativa».
Anche il lettore più scaltro si ritroverà in quelle frasi, che hanno il pregio di farlo sentire parte del gruppo: «Ormai l'unica voce di sinistra è quella di Papa Francesco», «adesso tutti vogliono fare Macron», «io leggo un po' di tutto», «Napoli non è solo camorra»…
Superficie è sì un lavoro di raffinato montaggio, ma in qualche modo anche il referto, piuttosto agghiacciante, di uno stare al mondo che sentiamo nostro nella sua abissale superficialità Francesco Durante, «Il Mattino»
L'autore prende i luoghi comuni, li smonta, li rovescia o li accosta a una battuta, a un aforisma. È un gioco, sì, ma è anche una sarabanda dell'intelletto in cui le voci, le nostre voci, compongono un quadro divertente della banalità dei nostri giorni, senza mediazioni né riflessioni che appesantiscono la lettura.
L’agente del caos è un libro tutto da gustare, tangente al noir, ma che vola più alto Massimo Vincenzi, «La Stampa»
Uno scrittore romano, dopo la pubblicazione di un romanzo ispirato alla vita di Jay Dark, un agente americano il cui compito è spacciare droga nei movimenti giovanili per allontanarli dalla rivoluzione, viene contattato da un avvocato californiano di nome Flint: la vera storia di Jay è molto diversa e lui può raccontarla, lui c'era.
Jay è un personaggio doloroso, affascinante, che dopo un periodo di reclusione al Bellevue Hospital, viene reclutato e indottrinato alla legge del Caos dallo scienziato Kirk, «sia un diavolo che un sognatore: da un lato è uno scienziato puro, uno che vuole sperimentare i limiti dell'essere umano, dall'altro lato è veramente un personaggio diabolico» (Giancarlo De Cataldo, «la Repubblica»).
L'agente del caos, l'ultima fatica di Giancarlo De Cataldo, ruota proprio intorno alla figura di Dark, ispirata ad un personaggio realmente esistito, come spiega lo stesso autore nella video intervista rilasciata a Repubblica: «Era un agente segreto doppio, forse triplo, un signore che parlava undici lingue, che è stato il più grandi trafficante di Lsd nel mondo negli anni '60 e '70 e che realmente è stato in Italia, è stato arrestato, è andato in carcere. È diventato amico delle Brigate Rosse, ma anche confidente dei Carabinieri. Ad un certo punto è stato scarcerato ed è scomparso nel nulla. Si chiamava Ronald Stark».
L'esistenza di Jay Dark è caratterizzata da luci e ombre; il lettore rimane affascinato da questo personaggio la cui vita è difficile da ricostruire. Per Massimo Vincenzi, L'agente del caos «è un libro tutto da gustare, tangente al noir, ma che vola più alto e si abbevera alla migliore tradizione della letteratura americana (American Tabloid), senza perdere le radici italiane, si spinge oltre la banalità grazie a personaggi avvincenti e una trama dalla quale non si può sfuggire» («La Stampa»).
Ma qual è la verità su Jay Dark? Lo scrittore romano è ossessionato, vuole scoprire se tutto ciò che gli racconta l'avvocato Flint è finzione o realtà e dovrà decidere se continuare nelle sue verifiche o accettare la leggenda.
De Cataldo, autore dei bestseller Romanzo criminale e Suburra, ammette che L'agente del caos è un libro diverso dai precedenti: «È un racconto che è costato un lungo tempo di gestazione e aggiungo che 30 o 40 anni fa avrei scritto una cosa completamente differente: con i buoni da una parte e i cattivi dall'altra. Ora ho la convinzione che tutti sia più sfumato, più complicato» (Giancarlo De Cataldo intervistato da Massimo Vincenzi, «La Stampa»).
Prima esistevano due coppie. Ora ci sono quattro adulti vivi, ricchi di rimpianti, momenti tristi e rughe allegre, sconcertati da tutta questa libertà. Cristina Comencini affida alle parole la burrasca del cuore in un passo a quattro intenso e profondo, la danza della seconda metà della vita.
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Da soli è il nuovo romanzo di Cristina Comencini, scrittrice, drammaturga e regista che, con la Bestia nel cuore, ha ottenuto la nomination all’Oscar. L’autrice racconta tutto quello che avviene quando un matrimonio entra in crisi: la collezione dei perché (o la febbre di cancellarli), lo slancio verso il futuro (o il culto del passato), la disillusione che spunta da tutte le parti, la certezza che niente cancellerà quella storia d’amore.
Andrea e Marta, Laura e Piero, giunti nella seconda metà della loro vita, si separano dopo trent'anni di convivenza: due matrimoni che sembravano costruzioni invincibili sono scossi da una crisi profonda, simmetrica e dolorosa. Devono fare i conti con i «milioni di pensieri pensati insieme», con i figli che devono accettare la fine dell'amore, con i ricordi delle vacanze, delle letture condivise, dei corpi che si amavano.
Comencini racconta con sensibilità la solitudine che viene dopo le separazioni, il vuoto e il silenzio delle case, una volta animate da tante voci e da una trafficata convivenza. Ora, le abitazioni sono eremi dove i protagonisti cercano nuove libertà ma combattono anche con i ricordi, i rimpianti, le domande sul perché della fine di un amore. «Da soli è il romanzo di chi porta due valigie, vuole dar conto, nel dolore della rottura, di due punti di vista, due reazioni, due linguaggi, due modi di reagire, due sensibilità […] Le due valigie spesso vengono confuse, l’uno distrattamente afferra quella dell’altra e viceversa» (Pierluigi Battista, «Corriere della Sera»).
I figli sono dispersi nel mondo mentre i genitori devono decidere se affrontare nuove convivenze, baluardo alla solitudine, o accettare di vivere in piena libertà, liberandosi anche dei ricordi. L’autrice vuole anche «parlare della precarietà di tutte le relazioni d’amore: mentre una volta, anche nelle tragedie e nei tradimenti, l’idea di una condivisione della vita era possibile, oggi siamo nel regno dell’individualismo assoluto» (Cristina Comencini intervistata da Laura Pezzino, «Vanity Fair»).
In ognuno di noi esistono zone nascoste che a volte diventano così grandi che rendono la conoscenza reciproca difficile e precaria e «il romanzo di Cristina Comencini ci dice che la sofferenza è di tutti, ma non lo è allo stesso modo per tutte e tutti, perché c’è una differenza irriducibile tra il modo in cui la sofferenza è rappresentata dagli uomini e un altro in cui è raffigurata dalle donne, anche se poi tutto si mescola, si sovrappone, oppure si confonde» (Pierluigi Battista, «Corriere della Sera»).