Giulio Einaudi editore
Luca D’Andrea, Lissy

Una giovane donna in fuga e il mistero che porta con sé. Un solitario che vive sulla montagna dei suoi padri, seguendo leggi inflessibili e antichissime. Un uomo divorato dal passato e uno tanto spaventoso da non avere né nome né futuro. Poi Lissy. Un'invenzione gigantesca.

«Un thriller esistenziale e cupissimo ambientato sulle Alpi, centrato su quattro personaggi borderline. Caratteri a tutto tondo, e un intreccio che coinvolge il lettore, senza pause né sbavature, fino all'epilogo: non sorprende che un autore così solido sia finito, già al debutto, nelle top ten di paesi come la Germania, la Spagna, la Danimarca. Perfino l'Uruguay».
Claudia Morgoglione, «la Repubblica»

«Lissy è una creatura arcaica e quasi mitologica, con cui D’Andrea mette a segno un’invenzione assai potente e riuscita, lasciando che il romanzo viri nei toni dell’horror e del visionario».
Alessia Rastelli, «Corriere della Sera – La Lettura»

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Luca D’Andrea, dopo lo straordinario successo in Italia e all'estero de La sostanza del male, tradotto in 35 paesi e che presto diventerà una serie TV, torna con un nuovo, avvincente, thriller, Lissy.

Il libro ha vinto il Premio Giorgio Scerbanenco 2017 in quanto «originale esempio di noir ambientale in cui la montagna, vera coprotagonista del romanzo, nasconde antiche paure e minacce, esplorando in modo paranoico i segreti più oscuri della provincia italiana».

La storia è ambientata nel silenzio degli spazi dolomitici, dove vive il Bau’r Simon Keller, un contadino solitario che conosce i segreti delle erbe e delle montagne. È «boscaiolo, cuoco, falegname, allevatore, medico...  perfino prete». Proprio quest'uomo trova, tramortita e ferita, una donna, Marlene, e la accoglie nel suo maso.

La donna è fuggita dal marito, Robert Wegner, per tutti Herr Wegener: un uomo spietato, «quarantadue anni passati a costruire una carriera fatta di intimidazioni, contrabbando, agguati e omicidi» (Lissy, p. 5). Marlene, «quasi una novella Angelica in una selva dannata, è il motore di tutte le inchieste del libro, delle quali lo scrittore regge le file con sapienza» (Alessia Rastelli, «Corriere della Sera – La Lettura»). Ha abbandonato il boss portandogli via un sacchetto di zaffiri, lasciandolo rabbioso e sgomento, ma durante ha l’incidente che le farà incontrare il Bau’r.

Nel libro compaiono altri due personaggi: l’Uomo di fiducia, un killer spietato, bello come un attore di Hollywood, messo sulle tracce di Marlene dal marito e, soprattutto, Lissy. È una gigantesca scrofa del Bau’r, la sua prediletta e a cui dedicherà particolari e inquietanti attenzioni: «una creatura arcaica e quasi mitologica, con cui D’Andrea mette a segno un’invenzione assai potente e riuscita, lasciando che il romanzo viri nei toni dell’horror e del visionario» (Alessia Rastelli, «Corriere della Sera – La Lettura»).

La montagna, il freddo, la neve, una donna in fuga, un vecchio che la aiuta e Lissy: «Sembrerebbe una fiaba, come quelle del libro dei fratelli Grimm da cui Marlene, la protagonista, non si separa mai: il vecchio che salva la principessa dall’orco, solo che a un certo punto non si capisce più chi sia l’orco. O se ce ne sia più di uno» (Alessia Rastelli, «Corriere della Sera – La Lettura»).

Dietro i personaggi ci sono storie piene di luci e ombre: nessuno è innocente ma nessuno sembra colpevole senza attenuanti. Poi c’è la montagna, «dura. Severa. Chiusa in un silenzio minerale. Altro che luogo idilliaco... prova a viverci davvero, lassù, e poi ne riparliamo» (Luca D’Andrea intervistato da Claudia Morgoglione, «la Repubblica», link).

«L'Alto Adige è il mio parco giochi personale, dove posso far muovere i personaggi dei miei libri: come fa Jo Nesbø in Norvegia o Stephen King, il mio mito, nel Maine. Ma con Lissy ho voluto scrivere una storia completamente diversa dalla precedente, e anche per questo l'ho ambientata in un'altra epoca, nel 1974: il periodo in cui l'economia del maso tramonta» (Luca D’Andrea intervistato da Claudia Morgoglione, «la Repubblica», link).

La storia di D’Andrea è «forte e cattura, confermando che siamo di fronte a un narratore solido e originale» (Alessia Rastelli, «Corriere della Sera – La Lettura»), le cupe atmosfere sono accompagnate da «caratteri a tutto tondo, e un intreccio che coinvolge il lettore, senza pause né sbavature, fino all'epilogo» (Claudia Morgoglione, «la Repubblica», link).

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Di seguito Luca D’Andrea presenta Lissy sul profilo Facebook de «la Repubblica».


 

 

 

 



Severino Cesari e Paolo Repetti

 

Altri, con più lucidità e la giusta distanza sapranno dire meglio di me cosa ha rappresentato Severino Cesari - Seve - per il giornalismo e l'editoria italiana. Stasera, a pochi minuti dalla notizia della sua scomparsa, della scomparsa del mio fratello maggiore di avventure e imprese editoriali, posso solo dire il vuoto che la sua figura lascia dentro di me. Severino è stato un maestro dell'ascolto. Tutti i nostri autori lo sanno. Aveva la pazienza, il distacco, l'attenzione lucida di un monaco buddista. E tutte le virtù di un maestro di cerimonie. Della cerimonia che, insieme alla vita, ha amato di più: la letteratura, che della vita in genere, e della sua vita, era parte integrante.

Spesso l'ho visto incantarsi davanti a un fiore, una montagna, un libro antico, una parola. E fermarsi lì, in ascolto. Eravamo così diversi e così uniti. Io, un impulsivo navigatore della superficie. Severino, piantato come una quercia che trae la sua linfa, la sua conoscenza, solo dopo aver messo radici. Ascoltava, dicevo. Spesso in silenzio. Non l'ho mai sentito esprimere un parere corrivo, orecchiato. Detestava il chiacchiericcio mondano sui libri. Per lui, su ogni parola, si giocava la bellezza e la verità di un testo. E non mollava l'osso fino a quando non ne fosse stato convinto.
Poi, quando i libri finalmente uscivano, Severino si ritirava «in clandestinità». Lasciava a me, a noi tutti la palla. Qualche volta provavo a convincerlo: «Seve, dovresti chiamare tu il tal critico o un giornalista, non lo fai mai!» Lui annuiva. La telefonata magari prima o poi arrivava. Ma quando il libro era già uscito da mesi.

Caro Seve, quanto era tenera e tua quella timida discrezione.

La vita è stata incredibilmente generosa con lui. E sembra un paradosso dirlo per una persona martoriata negli ultimi anni dalla malattia. È stata generosa perché lui lo è stato con lei. Ecco l'insegnamento forse più grande che mi ha lasciato. Non esistono sventure, malattie, drammi che non sia possibile trasformare in una occasione di sguardo verso un altrove. Severino lo ha fissato con candore, fino agli ultimi istanti, come stupito della forza invincibile che ha la vita, se la si attraversa con l'intelligenza di un cuore immenso.

Ciao Severino, ora sta a noi prendere una parte di te nelle nostre vite.

Paolo Repetti, «la Repubblica» del 26/10/2017.

Paul Auster

«Un romanzo di formazione dal sapore epico. È impossibile non restare impressionati – per non dire sbalorditi – di fronte all’impresa portata a termine da Auster. Un’opera frutto di un’ambizione sfrenata e di una maestria senza pari; un monumentale affresco fatto di storie che abitano universi paralleli eppure si incrociano. Un romanzo che ne contiene infiniti altri».
«The New York Times Book Review»

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Dopo un'attesa di quasi dieci anni, Paul Auster ritorna al romanzo. 4 3 2 1, finalista al Man Booker Prize 2017, racconta i quattro sentieri diversi della vita di Archie Ferguson, la vita che ha avuto e quella che avrebbe potuto avere: «è il risultato di un'ambizione vertiginosa e di una maestria artigianale unica. Una costruzione grandiosa di storie alternative e complementari» («The New York Times Book Review»).

Il romanzo di Paul Auster è avvolgente, «ponderoso, se non fosse per la cristallina scrittura di Auster che dà il suo meglio nel tratteggiare come i diversi personaggi reagiscono alle ordinarie catastrofi – incendi di negozi in cui si è investito tutto, fratelli che truffano fratelli, l’adorata fidanzata che bacia un altro: la vita, in poche parole – che si para loro davanti» (Riccardo Staglianò, «il venerdì – la Repubblica», link).

Ogni esistenza umana lascia dietro di sé sentieri interrotti, deviazioni ignorate, viaggi incompiuti, passioni trascurate, tanti se... I romanzi sono un placebo al desiderio di vivere altre vite, di abitare in altri luoghi e in altri tempi, di avere vicino e amare persone diverse in modi diversi.

Paul Auster ha scritto una sinfonia maestosa suonando i tasti del destino e del caso: un libro che mette d'accordo Borges e Dickens, un'avventura vertiginosa e scatenata, unica e molteplice come la vita di ognuno.

Ferguson è nato in una famiglia di origine ebrea polacca nel 1947 e Auster, con «una struttura a scatole cinesi che rinvia a Pirandello o a Borges e ammicca alle ardite sperimentazioni del postmoderno» (Roberto Bertinetti, «Il Messaggero»), ne racconta le storie e contemporaneamente affresca l'America degli anni Sessanta.

Mentre esplora la crescita del suo personaggio che passa dall'infanzia all'età adulta in quattro modi diversi, racconta il New Jersey e New York, le proteste per i diritti civili, Kennedy e il suo assassinio, il baseball e il Sessantotto ed è lo stesso autore ad ammettere, nell’intervista per il venerdì, che in 4 3 2 1 trapela anche una sorta di nostalgia per la gioventù.

Auster, «autore di culto negli Usa e in Europa» (Roberto Bertinetti), trascina il lettore in un caleidoscopio di immagini e fatti che richiamano alla mente i lavori di De Lillo e Roth con «un romanzo di formazione dal sapore epico. È impossibile non restare impressionati – per non dire sbalorditi – di fronte all’impresa portata a termine da Auster. Un’opera frutto di un’ambizione sfrenata e di una maestria senza pari; un monumentale affresco fatto di storie che abitano universi paralleli eppure si incrociano. Un romanzo che ne contiene infiniti altri» («The New York Times Book Review»).