Mese: febbraio 2015
La «New York Times Book Review» ha collocato fra i dieci libri migliori del 2014 il romanzo di Akhil Sharma, Vita in famiglia.
In un'intensa conversazione con Mohsin Hamid, autore del Fondamentalista riluttante e Come diventare ricchi sfondati nell'Asia emergente, Sharma parla del suo libro, al quale ha lavorato per quasi tredici anni.
Mohsin Hamid: So che nel romanzo Vita in famiglia racconti una vita molto simile alla tua. In che misura il tuo romanzo è un'autobiografia?
Akhil Sharma: È una di quelle domande a cui i romanzieri odiano rispondere.
MH: Lo so.
AS: I romanzi dovrebbero essere giudicati con severità. Un libro funziona oppure non funziona. Una cosa può essere vera nel mondo reale, ma non per questo è più autorevole nella fiction.
MH: Lo so, ma te lo chiedo perché ho una seconda domanda da farti, e dipende dalla tua risposta.
AS: È quasi tutto vero. Anche se le cose non sono accadute nell'ordine in cui le faccio accadere nel romanzo. E altre cose non le ho messe nel romanzo sebbene siano state importanti nella mia formazione.
MH: Perché non hai scritto un memoir?
AS: Considero i memoir alla stregua di saggi, e tutto in essi dev'essere vero. In un'opera di saggistica non posso avere personaggi compositi. Non posso attribuire a qualcuno un dialogo basato esclusivamente sui miei ricordi e non su appunti presi all'epoca in cui le parole furono dette; inoltre devo poter dire cose che sono importanti anche se non funzionano in termini narrativi, cose che distruggerebbero la simmetria o il ritmo narrativo. È il mio punto di vista personale, naturalmente, ma sentivo che era impossibile superare tutti questi ostacoli riuscendo comunque a scrivere qualcosa di significativo.
MH: Dicevi prima che hai lasciato fuori cose che sono state importanti nella tua formazione. Potresti dirmene una?
AS: La costante disperazione di vivere con una persona malata, di non avere speranza. È stato questo il polo d'attrazione intorno a cui hanno gravitato la mia infanzia e giovinezza. Per descriverlo compiutamente avrei dovuto metterlo in primo piano. Ma la disperazione è ripetitiva e noiosa. Non solo, uccide l'interesse del lettore per gli altri aspetti della narrazione.
MH: Hai accennato di nuovo al fatto di aver raccontato la formazione di un personaggio. Ti va di dirci qualcosa su ciò di cui secondo te parla il romanzo?
AS: Per me il romanzo parla di un bambino che diventa una persona compiuta in una famiglia claustrofobica, e di come l'adulto ci ritorna sopra e cerca di dar conto di ciò che è accaduto. Come sai, è un tema classico anche del romanzo modernista. Credo di poter paragonare Vita in famiglia a Così muore la carne di Samuel Butler, per esempio, o al Ritratto dell'artista da giovane di Joyce, che da Butler trasse ispirazione. Ma ai miei occhi è anche la storia della mia generazione di indiani americani. Credo che si tratti di qualcosa di nuovo: un rigoroso romanzo modernista sul sé infantile che ha a che fare specificamente con l'esperienza dell'immigrante indiano.
MH: Prevedi che il libro sarà definito romanzo d'immigrazione?
AS: Philip Roth e Saul Bellow sono stati definiti scrittori ebrei per un sacco di tempo. Faulkner era considerato uno scrittore del sud. Di Virginia Woolf si sottolineava l'essere donna. Spesso si ha bisogno di definire le cose alla svelta e così si usa un'abbreviazione. Il problema è che spesso dopo aver usato un'etichetta si comincia a ragionare solo nei termini dell'etichetta invece che della totalità dell'esperienza racchiusa nel romanzo. È come quando nelle relazioni ci concentriamo solo su un aspetto della persona amata, a detrimento di tutti gli altri.
MH: In più, spesso la gente si basa sull'etichetta per decidere se leggerà o no un dato romanzo.
AS: Sì, ma resta il fatto che un'abbreviazione è necessaria.
MH: Una delle cose che colpisce in te è la celerità con cui ti sposti fra particolare e universale.
AS: Tendo a pensare che siamo tutti molto simili. Tutti ci disperiamo. Tutti abbiamo problemi nelle relazioni. Tutti abbiamo paura. Tutti guardiamo gli altri pensando che sono molto più fortunati di noi. Poi, certo, i dettagli delle singole vite sono unici. D'altra parte, passare il tempo a pensare quanto si è diversi dagli altri è di solito piuttosto improduttivo.
MH: Cosa mi dici dei dettagli del tuo romanzo e della tua vita? Sembrano unici in un modo non generalizzabile. Quegli strani «operatori del miracolo», ad esempio.
AS: Non sono unici. Spero che tu non debba mai soffrire di una grave malattia, ma se dovesse accadere, potrebbe succederti di rivolgerti ovunque in cerca di aiuto.
MH: E quella gente che considera tua madre una santa e viene a chiederne la benedizione?
AS: Non succede anche nel cattolicesimo? Tutti quei martiri considerati santi?
MH: Cambiando un po' discorso, hai passato tredici anni su questo romanzo.
AS: Rabbrividisco nel sentirtelo dire.
MH: Il numero è giusto?
AS: Sì, lo è, anche se io dico sempre dodici perché per qualche ragione mi sembra un numero meno penoso.
MH: Ci hai messo così tanto per via della natura autobiografica del libro?
AS: Poiché non voglio che il libro sia letto come un memoir, lascia che ne parli prima come di un'opera di fiction, una realtà inventata. Tecnicamente, è stata una sfida incredibile. Spero che le soluzioni che ho inventato non si vedano, ma è stato difficile metterle a punto. È stata una sfida scrivere di cose fisicamente pesanti senza provocare una presa di distanza del lettore. Il lettore legge di un personaggio che diventa cieco ed è così straziante che abbandona il libro. Dovevo trovare una soluzione per questo. Un'altra cosa difficile era creare un narratore bambino, ma anche sufficientemente informato perché la narrazione risulti comprensibile al lettore. Infine, in una situazione di malattia terminale come quella di cui ho scritto, tende a non esserci un intreccio. Ciò che accade, è il passare del tempo. Spaventosamente monotono, così ho dovuto creare una serie di racconti collaterali per tener viva l'attenzione del lettore e indurlo a continuare a leggere.
MH: E quali sono gli elementi autobiografici? È stato difficile scriverne?
AS: È stato difficilissimo trovare un punto di vista stabile sui vari avvenimenti che racconto. Mia madre aveva parecchi tipi strambi che venivano a casa per risvegliare mio fratello. E io lo capisco. Ma sento anche che in questo modo faceva del male a me e a mio padre. Era egoista, mia madre? O era inconsapevole? Se era inconsapevole, lo era intenzionalmente? Sono queste le domande che mi hanno tormentato durante la stesura del libro. Spero che il mio corpo a corpo coi personaggi, il loro modo di attirarmi a sé e poi di allontanarmi, possa sperimentarlo anche chi legge.
MH: Ho notato questo tira e molla. Puoi fare un confronto fra questo romanzo e il precedente?
AS: Penso che in questo libro ci sia molta più tenerezza.
MH: Ho notato anche questo. Mi sono affezionato a ognuno dei personaggi.
AS: Una differenza tecnica fra Un padre obbediente e Vita in famiglia è che in quest'ultimo faccio maggiore ricorso alla descrizione. Per me nella descrizione c'è sempre tenerezza. Mentre una scena drammatizzata è un modo per garantire un'esperienza emotiva al lettore, la descrizione dà per scontato un lettore sofisticato che sappia vedere l'universale. Descrivere dimostra una grande fiducia nel lettore, e tale espressione di fiducia infonde tenerezza al libro.
Traduzione di Anna Nadotti
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