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Addio al calcio
Come in un curioso romanzo eroicomico,
un tifoso «suo malgrado» accetta di esporre le proprie confessioni: l'epica irredimibile delle domeniche
pomeriggio trascorse preda del televisore,
la mite bellezza dei mille campetti improvvisati,
i due tiri sulla spiaggia, la cronaca dei vecchi album sportivi, i palloni perduti sui prati montani¿
Tramandato di padre in figlio come un rito d'iniziazione, il calcio appare infine come una staffetta, un pegno, un'umile divinità domestica chiamata a vegliare
sul futuro delle famiglie italiane.
Il libro
«Non mi era mai capitato di pensarci, ma qualche anno fa ho smesso per sempre di giocare a pallone. È come se avessi cambiato sistema respiratorio. Di più: ho fatto il percorso inverso a quello della farfalla. Io, che vivevo all’aperto, ebbro d’ossigeno, sono rientrato nel nero bozzolo, rinchiuso nell’astuccio di una stanza a macinare chilometri in cyclette». Composto da novanta «racconti da un minuto» e diviso in due «tempi» da quarantacinque minuti l’uno, Addio al calcio è un rincorrersi di aneddoti, ricordi, storie di vite più o meno illustri. Pagina dopo pagina, Valerio Magrelli si dispone a un’immersione totale nell’universo di una passione vissuta e insieme sognata. Mentre si susseguono le immagini di campioni antichi e moderni, di trepide comunità adolescenziali o di definitive solitudini, prende forma il racconto del gioco più famoso del mondo. Dal calcio-balilla alla PlayStation, dal fantacalcio al Subbuteo, le infinite incarnazioni dell’ossessione calcistica irrompono fra le mura domestiche, fino a “colonizzare la mente del tifoso non solo la domenica, ma tutti i giorni della settimana».
Attraverso lo specchio deformante di un’esistenza passata in attesa dei risultati, queste istantanee tracciano i confini di una mania capace come nessun’altra di unire padri e figli in un alfabeto comune, in una lingua fraterna. Con una specie di autobiografia sbilenca, Valerio Magrelli offre così al lettore la sua testimonianza ironica, malinconica, redenta.
«In cortile non c’è più nessuno, è pomeriggio, ha appena smesso di piovere e si sentono solo i colpi lenti della sfera che batte e rimbalza, echeggiando fin nella tromba delle scale. Rimbombi profondi, cardiaci, e il rimbalzo.
La mia infanzia è segnata da questo metronomo. È così che ho imparato il controllo di palla».