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Privati del patrimonio
La religione del mercato sta imponendo al patrimonio culturale il dogma della privatizzazione. Ma se l'arte e il paesaggio italiani perderanno la loro funzione pubblica, tutti avremo meno libertà, uguaglianza, democrazia. L'alternativa è rendere lo Stato efficiente. Ma non basta: dobbiamo costruire uno Stato giusto.
Il libro
Sono vent’anni che, in Italia, la politica del patrimonio culturale si avvita sulla diatriba pubblico-privato: brillantemente risolta socializzando le perdite (rappresentate da un patrimonio in rovina materiale e morale) e privatizzando gli utili, in un contesto in cui le fondazioni e i concessionari hanno finito per sostituire gli amministratori eletti, drenando denaro pubblico per costruire clientele e consenso privati. Ma cosa ha significato, in concreto, la «valorizzazione» (o meglio la privatizzazione) del patrimonio? Quali sono la storia e i numeri di questa economia parassitaria, che non crea lavoro dignitoso e cresce intrecciata ai poteri locali e all’accademia piú disponibile? Ed è vero che questa è la strada seguita nei grandi paesi occidentali? Tomaso Montanari risponde a queste e altre domande spiegando perché non ci conviene distruggere il governo pubblico dei beni culturali basato sul sistema delle soprintendenze: un modello che va invece rafforzato e messo in condizione di funzionare, perché è l’unico che consente al patrimonio di svolgere la sua funzione costituzionale. Che è quella di renderci piú umani, piú liberi, piú uguali.