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Casa Darwin
Questo libro è una toccante biografia intima di Darwin, della piccola Annie e dell'intera «tribú» dei Darwin-Wedgwood, scritta da un loro diretto discendente. Ma è anche un affresco a tutto tondo, colto e raffinato, dell'Inghilterra vittoriana, con le sue poesie, le sue chiese, i suoi paesaggi, l'incedere tumultuoso della scienza e dell'industria e i contrasti che certe idee, proprio come quella «pericolosa» di Darwin, hanno portato nelle coscienze dell'epoca. Per giungere fino a noi, ancora sature della loro dirompente carica innovativa.
Il libro
Il paesino di Downe, nel Kent, ospita Down House, la Casa dei Darwin. Oggi è un museo, all’estrema periferia sudorientale di Londra, ma nel 1842 si trovava a due ore di carrozza dalla capitale, “all’estremo limite del mondo”. Charles Darwin vi giunse con la moglie Emma Wedgwood, in attesa del terzo figlio, e non se ne andò piú. Sul terreno della casa c’è ancora il Sentiero Sabbioso, sul quale Darwin passeggiava ogni giorno a mezzogiorno, meditando e tentando di venire a capo dei molti problemi che la sua teoria della selezione naturale gli poneva. Su quei prati sono cresciuti i suoi numerosi figli, tra i quali la piccola Annie, la piú amata. E proprio Annie, morendo a dieci anni, ebbe forse un ruolo importante nell’elaborazione del pensiero metafisico del grande naturalista inglese, che tanto fa discutere il mondo. L’interpretazione radicalmente naturalistica del male, del bene, della sofferenza o del posto per nulla privilegiato dell’uomo nella natura, sono il frutto del suo lavoro teorico e sperimentale, ma in parte anche della sua vita privata, nella quiete della campagna inglese.
Charles aveva sempre condiviso il generale desiderio di trovare nel mondo naturale le «prove di un disegno e di una benevolenza». Aveva respinto la pretesa della teologia naturale che ogni specie fosse stata escogitata separatamente da un Creatore onnipotente, ma scrisse a Gray e a Hooker che non gli riusciva di «considerare questo meraviglioso universo, e in special modo la natura dell’uomo, come il frutto di un cieco caso» o della «forza bruta». Ma non gli riusciva neppure di scorgere le prove di un disegno e di una benevolenza «con la stessa facilità con cui altri le vedono». «Mi sembra che esista troppa infelicità nel mondo». Indicava alcuni esempi, forniti dalla natura, come l’enorme numero degli icneumonidi, insetti simili alle vespe, che si nutrono dei corpi vivi dei bruchi; ma la sua parola «infelicità» si riferiva chiaramente alla sofferenza e all’afflizione umane.