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Il ritratto
«Si può parlare del ritratto in termini contraddittori: un ritratto cosí somigliante che crea l'illusione; ma una somiglianza che lascia forse sfuggire l'essenziale, l'anima dell'uomo, che si esprime meglio nello scritto dei poeti o degli storici.»
Il libro
La definizione che i piú antichi dizionari danno del ritratto è semplice: «una figura cavata dal naturale». Ma questa definizione – che i pittori stessi sentono imperfetta – non deve trarre in inganno: la semplicità è solo apparente. Già all’inizio del XV secolo il ritratto è infatti oggetto privilegiato di una letteratura ampia e assai contraddittoria. Nasce subito una controversia che dall’Italia si irradia anche all’esterno e perdura, ricca e vitalmente conflittuale, fino a tutto il XVIII secolo. Da un lato si esalta il valore memoriale o mimetico del ritratto, dall’altro se ne criticano le implicazioni sociali, filosofiche, morali o religiose. Una disputa accesa che non può non influenzare le molteplici relazioni fra l’artista e il suo modello. Cosí, mentre nel XVII secolo l’Accademia francese, stilando una propria gerarchia dei generi, relega il ritratto in una posizione inferiore rispetto alla pittura storica, nel secolo dei Lumi esso riguadagnerà non soltanto una propria forte dignità, ma anche una virtú quasi magica. Raccontando e rileggendo documenti storici, corrispondenze, testimonianze e testi letterari spesso poco noti, e tracciando una mappa ricca e suggestiva delle opere pittoriche – da Tiziano a Michelangelo, dai Carracci a Van Dyck, dall’Arcimboldo a Velázquez, a Rembrandt, a David -, Édouard Pommier sottolinea come il ritratto non sia stato soltanto uno fra i molti generi pittorici, ma il nodo di una vera e propria filosofia dell’individuo in cui i soggetti, in realtà, sono due: l’artista che ritrae e il modello che, facendosi ritrarre, si autorappresenta.