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I fogli del capitano Michel
Tutto parte da una scoperta. Un pacco di foglietti ingialliti, di varia misura, che hanno quasi cento anni e raccontano una storia: quella di un gruppo di soldati sull'Ortigara nell'estate del 1916. Una storia che merita di essere raccontata.
Il libro
All’inizio c’è un ritrovamento, nell’archivio di un museo: alcune piccole fotografie di soldati. Anche se sparse fra altre, qualcosa le unisce e le rende riconoscibili: un certo carattere, una sorta d’ingenua semplicità. Sul retro, a matita, è annotato sempre lo stesso nome: Michel. Un nome che diventa come una traccia da seguire.
Quelle fotografie fanno tutte parte, insieme a carte, lettere, documenti, di una stessa donazione. Una delle buste della «donazione Michel» contiene anche un blocco di fogli, di misure diverse, ripiegati a metà. Dicono di pattuglie in perlustrazione nella notte davanti alle trincee austriache, dell’arrivo del rancio, di un bombardamento, di morti. Dicono anche che si è davanti a Monte Ortigara, in quei luoghi che i lettori conoscono grazie a Mario Rigoni Stern ed Emilio Lussu.
Sono messaggi, in gergo fonogrammi, con cui alcuni reparti di un battaglione alpino si erano comunicati disposizioni e informazioni. Come delle telefonate, scritte però a mano da alcuni ufficiali, e recapitate da portaordini. Vanno dal 24 giugno al 29 luglio del 1916, un mese. Proprio allora il capitano Michel, appena promosso, era giunto a prendere il comando di un battaglione decimato, rimasto quasi senza ufficiali. Nella vita civile era insegnante di storia e filosofia.
Claudio Rigon legge e rilegge quei fogli, comincia a metterli in ordine, per data e per ora – quando sono indicate -, poi procedendo per riferimenti incrociati. Cerca di inquadrare ogni dettaglio in un contesto, viaggiando da un libro all’altro, ripercorrendo a piedi gli stessi luoghi. Quei fonogrammi in fondo sono solo minuscoli frammenti della vita di quelle giornate. Eppure nel leggerli Rigon vi scopre un ritmo, un movimento, sente che si compongono in un flusso. Segue quel flusso e dà voce alla carta, una voce esatta, mai retorica, mai invadente, scarna e poetica.
Di pagina in pagina, prende vita un intero mondo, un’intera umanità. Sono quei fonogrammi, più ancora delle fotografie (che non a caso si è scelto di non riprodurre nel libro), a restituirci una storia apparentemente lontana, una storia di guerra. Ma soprattutto una storia di uomini, spesso giovanissimi, che si sono ritrovati a vivere l’orrore ma anche la normalità del fronte. Alla fine si ha la sensazione che siano proprio quei soldati a dire di sé, a raccontarci senza volerlo qualcosa d’importante.
«Ogni biglietto mi colpisce, su ognuno mi soffermo. Quando ne prendo uno in mano mi accorgo che non lo trattengo con le dita – solo un attimo per sollevarlo: lo lascio come sospeso nel cavo della mano, lo soppeso, lo interrogo. È stato scritto ottantacinque anni fa da uomini che erano i nostri nonni (per me, per la mia generazione), che si sono trovati lassù, in quei luoghi, fra quelle pietre, su queste nostre montagne, a vivere qualcosa che è difficile anche pensare, ora, essere stata possibile».